Giornalismo scientifico in cerca di etica – di Fabio Turone
È un rapporto complesso e ricco di sfaccettature, quello tra scienza e giornalismo, e in continua evoluzione. Se da un lato l’impoverimento progressivo e la precarizzazione del giornalismo fanno sì che una fetta sempre più importante di notizie di scienza sia affidata schizofrenicamente, senza continuità né visione, a freelance pagati poco (e per niente incentivati a crescere professionalmente), dall’altro sta emergendo con sempre maggiore chiarezza l’esigenza che anche quando si occupa di scienza, ambiente, medicina e innovazione, il giornalismo riesca ad andare al di là del semplice resoconto degli eventi del giorno.
Oggi viene dai giornalisti scientifici – e dalle loro asssociazioni che sempre più lavorano in network internazionali – la spinta ad affrancarsi dal ruolo di “figli di un dio minore”, guardati con scarso interesse dai colleghi nelle redazioni dei media generalisti, e con sospetto dalla comunità scientifica, che spesso vorrebbe trovare in loro solo un accondiscendente megafono. Ma in un periodo storico in cui è gravemente incrinata l’immagine idilliaca della scienza come attività puramente disinteressata, cresce in entrambi i mondi il numero di quelli che lavorano perché il giornalismo scientifico assolva sempre meglio anche alla funzione sociale di watchdog, capace di scavare a fondo nelle molte aree grigie per portare alla luce quel che non va come dovrebbe, così da lavare in profondità i panni sporchi senza mettere a repentaglio il «bambino» da cui dipende in gran parte il futuro della società.
Torri d’avorio affittansi
Mentre c’è una parte del mondo della scienza che ancora si interroga, e discute, sulla necessità di uscire dalla simbolica Torre d’avorio, ce n’è un’altra – assai più smaliziata – che da molti anni ha steso uno sberluccicante tappeto rosso davanti alla porta: invita a gran voce a entrare, spalancare la bocca per la meraviglia, e lasciare un contributo (pubblico o privato, fa poca differenza) per finanziare le magnifiche sorti e progressive delle proprie ineguagliabili ricerche, o per acquistare (con soldi pubblici o privati) qualcuno dei prodotti realizzati insieme all’industria.
In effetti non è un mistero per nessuno il fatto che i comunicati-stampa tendano per definizione a presentare come «importante novità» le banalità più ovvie, o i prodotti più banali. In ambito medico-scientifico, numerosi studi hanno dimostrato che i farmaci appaiono sistematicamente migliori nei press-release che negli studi scientifici cui i comunicati fanno esplicito riferimento. Un po’ meno scontata è stata invece la scoperta che la tendenza all’imbellettamento forzato non colpisce solo gli uffici stampa delle industrie, ma anche – seppure in misura minore – quelli di Università e istituzioni di ricerca pubbliche e private. Perfino le più prestigiose e serie riviste scientifiche sono state colte in flagrante nell’atto di magnificare al di là del bene e del male l’ultimo studio apparso sulla loro rivista, pur di ritagliarsi un posticino sulla stampa.
L’obiettivo di queste manovre sono ovviamente i giornalisti, che già si dibattono tra il dovere di informare senza esagerazioni, e con spirito critico, e il piacere di affabulare i lettori con storie fantastiche, così da vendere qualche copia in più, magari, o anche solo battere la concorrenza dei colleghi per uno spazio in prima pagina.
La cronaca è da sempre generosa di esempi. Si va da quelli che un occhio attento e smaliziato identifica subito come un inganno – l’archetipo può essere il caso Stamina, di cui si parla in dettaglio in queste pagine – a quelli in cui i confini tra bianco e nero sono molto più sfumati. Casi in cui non è immediatamente in gioco la salute o il portafoglio dei malati, ma che rischiano di compromettere la residua credibilità della scienza, e del giornalismo. Qui l’esempio oramai passato alla storia può essere la pretesa clonazione umana, annunciata da una combriccola di personaggi incredibili (anche nel senso letterale). Ma non mancano casi eclatanti anche in casa nostra: proprio nei giorni scorsi un neurochirurgo torinese è riuscito a ottenere paginate di quotidiani e settimanali annunciando che il trapianto di testa – o di corpo, secondo i gusti – è dietro l’angolo: è solo questione di un paio d’anni (se ci saranno i finanziamenti adeguati, inutile sottolineare).
Racconta frottole uno scienziato che si lancia in simili previsioni? Sì e no (soprattutto se diceva le stesse cose due anni fa). È credibile? Sì e no. È in buona fede? L’interrogativo rimane sospeso, e le risposte possibili sono molte. In genere, sulle previsioni a due, cinque o dieci anni sono state costruite carriere basate assai più sulla spregiudicatezza – e sulla capacità di usare a proprio beneficio i punti deboli dei media – che sul merito.
Cinquanta (e più) sfumature d’incertezza
Se già in casi come quelli citati non è sempre facile orientarci, ci sono altre situazioni ancor più sdrucciolevoli, per esempio quando enormi interessi commerciali rischiano di offuscare la valutazione strettamente scientifica, complicando enormemente il compito di prendere decisioni difficili in situazione di incertezza. È l’incertezza, infatti, l’elemento che accomuna tutte le controversie scientifiche, e che non trova quasi mai un’adeguata ospitalità sulle pagine dei giornali, anche se è alla base di qualsiasi affermazione scientifica.
Proprio in tema di incertezza scientifica fa sorridere l’aneddoto che Anne Glover, la microbiologa scozzese che dall’inizio del 2012 all’autunno 2014 è stata la prima Chief Scientific Adviser della Commissione europea (una figura di consulente scientifico del potere esecutivo diffusa nel mondo anglosassone, istituita a Bruxelles da Barroso e cancellata da Juncker, di cui ben poco si è parlato in Italia), raccontò in una delle prime uscite pubbliche dopo la nomina: «Un venerdì sera, quando mancavano un paio di settimane alla scadenza del mio quinquennio come Chief Scientific Adviser del Primo Ministro scozzese, ero tornata a casa ad Aberdeen dopo la settimana a Edimburgo, conclusa nel pomeriggio con un incontro con la stampa su un tema controverso. Ero stanca, e stavo cominciando a rilassarmi con il secondo bicchiere di vino in compagnia di mio marito quando squillò il telefono. Era il Primo Ministro, scontento per come il telegiornale della sera aveva presentato la questione. Per l’ennesima volta, mi contestò il mio linguaggio cauto, in cui non c’era spazio per “certezze scientifiche” ma solo per “conclusioni basate sulle migliori prove scientifiche disponibili al momento”, e per l’ennesima volta mi sfidò: “Possibile che non riesca a citarmi neppure una sola certezza scientifica su cui non nutre neppure un minimo dubbio?”. Forse fu la stanchezza, forse i due bicchieri di vino, forse l’idea che il mio mandato era quasi concluso, ma decisi di accettare la sfida. “Di una cosa sono certissima: nulla in natura può viaggiare più veloce della luce”, dissi. Ebbene ero ancora in carica quando, pochi giorni dopo, dal Gran Sasso arrivò l’annuncio dei neutrini capaci di superarla, quella velocità dichiarata insuperabile da Einstein».
Glover parlava a una conferenza internazionale di giornalisti e comunicatori scientifici, in una sessione dedicata all’esperienza del network internazionale dei Science Media Centre (full disclosure, come s’usa fare nel mondo anglosassone: di quella esperienza, come di molte altre descritte in questo articolo, l’autore è parte attiva quando non addirittura promotore: l’audio di quella sessione della conferenza PCST di Firenze 2012 è disponibile nel sito del Science Media Centre, colonna di destra). Il pubblico in sala sapeva bene che l’annuncio sui neutrini era frutto di un errore di misurazione, comune nella scienza, seguito da un errore – assai più grave – di comunicazione. E sapeva che ogni errore di questo tipo equivale a benzina gettata in abbondanza sulle braci sempre accese delle controversie.
Giornalismo scientifico in cerca di etica
D’altra parte il primo Science Media Center è nato nel 2002 in Inghilterra proprio per provare a gestire le fiamme che divampavano sui media – non solo nei famigerati tabloid – ogni volta che la cronaca offriva l’occasione per parlare di vaccinazioni (“Iniezioni killer, epidemia di autismo”), organismi geneticamente modificati (“Frankenfood”), energia nucleare, cambiamenti climatici e simili. Tutti temi in cui l’incertezza scientifica, per quanto piccola, veniva sempre declinata nella chiave del pericolo, non ipotetico e potenziale e circoscritto, ma concreto, imminente, dai contorni catastrofici.
Da allora la situazione è migliorata in Gran Bretagna, grazie al fatto che gli scienziati più seri (spesso anche i più riottosi a mettersi in gioco) sono stati spinti a scendere con più sistematicità nell’agone, accettando il gioco e le regole dei media, ma rimane critica in molti paesi (non solo in Italia, dove solo di recente ha iniziato a operare, nel contesto di un netwotrk internazionale, il Centro per il giornalismo scientifico etico). L’ultimo grave infortunio della serie ha riguardato una testata quotidiana canadese molto autorevole e diffusa, il Toronto Star, che ha macchiato la sua fama in tema di inchieste pubblicando in prima pagina uno spericolato atto di accusa diretto al vaccino contro il Papillomavirus, raccomandato alle preadolescenti di tutto il mondo per la prevenzione oncologica. L’errore, fin troppo comune, era stato quello di addebitare alla vaccinazione un gran numero di problemi di salute verificatisi anche molto tempo dopo l’iniezione, confondendo in modo fatale i resoconti aneddotici con i fatti – e i nessi di causalità – accertati con rigore scientifico. Dopo aver pubblicato in prima pagina un’inchiesta che denunciava “Il lato oscuro del vaccino”, la direzione del giornale ha dapprima respinto le critiche, piovute da ogni parte compreso il Science Media Centre canadese, ma poi ha preso atto che le accuse che i suoi giornalisti avevano mosso contro il vaccino erano del tutto ingiustificate, e rischiavano di compromettere la salute futura delle adolescenti, per cui responsabilmente ha chiesto scusa.
E a differenza delle numerose testate italiane – con in testa trasmissioni come “Le Iene”o “Striscia la Notizia” – che prima creano e cavalcano la controversia poi propendono per l’autoassoluzione, il Toronto Star ha non solo corretto il tiro, ma ha completamente ritrattato l’inchiesta, che oggi non è più disponibile in rete. Se restasse in internet, infatti, rischierebbe di essere continuamente rimessa in circolazione intorbidando nuovamente le acque, come continua ad accadere per le accuse – del tutto infondate – che imputavano al vaccino trivalente un aumento di rischio di autismo.
Il nesso inesistente – ma resistente – tra vaccini e autismo
La controversia era nata nel 1998 su una rivista scientifica, il prestigioso settimanale Lancet, e in quel caso si deve a un giornalista testardo e determinato se è stata portata alla luce la frode ideata dal medico inglese Andrew Wakefield. Quando Brian Deer cominciò a indagare per il Times di Londra sulla vicenda, la reazione della comunità scientifica fu a lungo di rifiuto, ma dopo dodici anni di insistenza Deer ha avuto piena soddisfazione, ottenendo la ritrattazione dell’articolo scientifico e la radiazione di Wakefield dall’Ordine dei medici: «Quando l’articolo fu infine ritrattato, 12 anni dopo la pubblicazione e dopo la dissezione forense nel corso del più lungo procedimento disciplinare del General Medical Council (GMC), ben pochi avrebbero potuto negare che quell’articolo era fatalmente difettoso sia dal punto scientifico sia da quello etico. Ma c’è voluto il diligente scetticismo di un uomo, che stava al di fuori della medicina e della scienza, per mostrare che quello studio era in realtà una frode elaborata» ha scritto in un editoriale Fiona Godlee, direttrice del British Medical Journal, un’altra rivista medica di prestigio assoluto. «Sulla base di interviste, documenti e dati resi pubblici nel corso del procedimento del GMC, Deer mostra come Wakefiend alterò molti fatti riguardo alla storia clinica dei pazienti per rafforzare la sua pretesa di aver identificato una nuova sindrome; come la sua istituzione, il Royal Free Hospital and Medical School di Londra, lo appoggiò mentre cercava di sfruttare i susseguenti timori sul vaccino trivalente per ottenere un beneficio finanziario; e come molti mancarono a lungo al loro dovere di investigare nell’interesse del pubblico quando Deer presentò le sue prime obiezioni».
Quell’editoriale del British Medical Journal è uscito nel gennaio del 2011, insieme ad una serie di articoli di Deer che ricostruivano in dettaglio l’intera vicenda, ma ancora nel novembre del 2014 un tribunale in Italia assegnava l’ennesimo risarcimento per “danno da vaccino” alla famiglia di un bambino autistico (fortunatamente, proprio a fine febbraio di quest’anno, mentre questa rivista era in chiusura, la Corte di Appello di Bologna ha ribaltato una sentenza del 2012, basata su una perizia che riportava “studi irrilevanti smentiti dalla comunità scientifica”).
Come si supera questa crisi di credibilità (e di competenza)?
Numerose iniziative formative sono state finanziate a livello europeo negli ultimi decenni, spesso su iniziativa della comunità accademica preoccupata della modesta qualità del giornalismo. Il modello top-down, in cui lo scienziato si aspetta che i giornalisti ascoltino la lezione e “imparino” a scrivere di scienza, si è ben presto rivelato velleitario, ed è stato progressivamente rimpiazzato da esperienze ideate insieme alle associazioni professionali più attive e desiderose di veder riconosciuto al giornalista specializzato un ruolo paritario, di “professional equal” (questi principi sono stati per esempio sottolineati nella “Dichiarazione di Erice” sulla farmacovigilanza, promossa da un gran numero di istituzioni internazionali, che invita gli scienziati a confrontarsi alla pari sui temi della comunicazione con chi per forza di cose parte da un’ottica differente).
E proprio a Erice, presso il Centro di cultura scientifica “Ettore Majorana”, è attiva dal 2009 una scuola internazionale di giornalismo scientifico in cui giornalisti e scienziati di tutto il mondo si confrontano sulle difficoltà di trattare la scienza nei media, e si interrogano sul modo più responsabile, ed efficace, per farlo (il prestigio raggiunto in pochi anni è testimoniato dalle 146 domande giunte da 37 paesi per i 35 posti disponibili nel corso del 2015).
Quanto alla formazione continua obbligatoria, partita nel 2014, finora la percezione di chi si occupa di giornalismo scientifico è profondamente negativa: l’approccio burocratico ha fatto sì che molte iniziative di ottima qualità non ottengano l’accreditamento, mentre abbondano le iniziative improvvisate e autoreferenziali. L’augurio è che ci sia a breve uno sforzo per aggiustare il tiro, nell’interesse dei cittadini-lettori, che devono alla scienza e alle sue applicazioni gran parte del benessere che oggi tutti diamo per scontato, ma il cui futuro dipende anche dalla capacità della società di prendere le giuste decisioni in tema di ricerca scientifica e di innovazione.
BOX – Scienza amica, bisognosa di critiche spietate
«I media e i comunicatori professionisti hanno un ruolo importante non solo come partner in tema di sicurezza, ma anche nel valutare con attenzione il funzionamento dei sistemi di vigilanza» si legge nella “Dichiarazione di Erice” pubblicata nel 2010 da un gruppo multidisciplinare riunito alla Scuola Internazionale di Farmacologia della Fondazione Ettore Majorana, appunto nella cittadina siciliana di Erice. «Occorre esplorare nuovi modi per cooperare con i media come professionisti alla pari (“professional equals”) per collaborare alla diffusione regolare al pubblico di informazioni sulla sicurezza dei farmaci che siano equilibrate, comprensibili, affidabili e interessanti, a prescindere da specifici annunci o segnalazioni di problemi o di crisi».
Perché non c’è momento peggiore di una crisi in cui sono in ballo grandi interessi economici e potenzialmente molte vite umane per dover decidere se fidarsi di più di chi lancia l’allarme o di chi cerca di rassicurare, e d’altra parte, come nel 2009 riconosceva un editoriale della prestigiosa rivista medica inglese Lancet, «L’opinione maggioritaria tra i professionisti della sanità di tutto il mondo è che i mass media sistematicamente sbaglino nel descrivere nella giusta luce la salute, la sanità e in generale la pratica della medicina. Ma è un’opinione giustificata e corretta? Più la stampa appare responsabile, meno il pubblico generale sembra apprezzarla. La gente non sembra interessata al resoconto diretto dei temi di salute; i media devono mantenere il proprio pubblico, e le controversie aiutano a vendere». E più avanti: «Il giornalismo responsabile non dovrebbe pesare unicamente sulle spalle dei giornalisti, ma anche degli editori, degli scienziati e dei professionisti della sanità». La soluzione già adottata con successo in alcuni paesi consiste nell’istituzione di un Science Media Centre, che fornisce assistenza ai giornalisti sia realizzando e diffondendo con estrema tempestività monografie, schede, dati statistici, bibliografie sulle tematiche ricorrenti sia dando loro accesso ai più qualificati esperti del mondo della scienza.
Inoltre, questo tipo di centro organizza seminari e workshop in cui scienziati e giornalisti sono invitati a confrontarsi: «Il futuro del giornalismo di salute» prevede la direzione di Lancet «dipenderà dal lavoro comune di scienziati, medici e mass media per assicurare l’interpretazione responsabile della ricerca scientifica e medica, e quindi promuovere la salute su scala globale».
Anche se il lavoro dei Science Media Centre è giudicato positivamente da molti giornalisti, non manca chi storce un po’ il naso perché si tratta pur sempre di un’iniziativa schierata dalla parte della scienza, e promuove invece un giornalismo completamente indipendente. Un giornalismo che sia competente ma non “embedded”, capace di un approccio investigativo che sappia gestire in trasparenza tutti i potenziali conflitti di interesse e non faccia sconti a nessuno. Tantopiù in un periodo storico come questo, in cui la credibilità e onestà della scienza è sempre più spesso messa in discussione: di un lato è nel mirino di guaritori e imbonitori interessati, spalleggiati da orde di complottisti, mentre dall’altro è sempre più consapevole che i sistemi di autogestione messi a punto storicamente – affidati alla revisione tra pari – sono poco efficaci per contrastare le frodi.
BOX – Il voto a chi scrive di salute
Dopo oltre un anno di stop per esaurimento di fondi, da poche settimane è ripartito a pieno regime grazie a una ricchissima donazione di una fondazione il progetto lanciato oltre otto anni fa dal giornalista americano Gary Schwitzer per incentivare i colleghi nei media a trattare i temi di salute in modo equilibrato e completo. Il progetto, cresciuto attorno al sito Health News Review, assegna un voto agli articoli su innovazioni terapeutiche applicando una griglia per valutazione della qualità su dieci elementi-chiave. Il progetto si era ispirato inizialmente agli analoghi tentativi, di più breve durata, realizzati in anni passati in Australia e Canada, e ha a sua volta ispirato un’esperienza analoga promossa dall’associazione dei giornalisti scientifici tedeschi. Il punto qualificante è la valutazione critica condotta da chi ha operato per molti anni all’interno dei media e conosce quindi le regole alla base del loro funzionamento.
Lo scopo è condividere gli strumenti di valutazione, fidando che il feedback aiuti tutti a crescere: «I giornalisti sono stati ricettivi nei confronti del nostro feedback; per ulteriori cambiamenti occorrerà raggiungere le gerarchie della redazione» scriveva Schwitzer in un articolo pubblicato sulla rivista di medicina PloS Medicine dedicato all’edito delle prime 500 recensioni. «Il tempo per documentarsi sugli articoli, lo spazio e la formazione dei giornalisti possono costituire la soluzione per molti dei difetti del giornalismo identificati nel progetto».
Ecco i dieci elementi-chiave che se affrontati in maniera soddisfacente valgono mezza stella ciascuno:
1. Disponibilità della terapia/test/prodotto/procedura
2. Costi
3. Presenza di “disease mongering” (ovvero la tendenza a medicalizzare anche i malesseri banali per poter proporre una soluzione, quasi sempre farmacologica)
4. Qualità metodologica della ricerca citata
5. Controindicazioni/effetti collaterali
6. Riflessione sulla reale novità dell’approccio
7. Contestualizzazione dei benefici
8. Eventuale uso abbondante di un comunicato-stampa
9. Presenza di una fonte indipendente, e citazione di tutti i possibili conflitti di interesse
10. Citazione delle possibili opzioni alternative
Una nota amara: dopo i primi due anni, Schwitzer e colleghi hanno smesso di recensire i servizi televisivi, che prendevano sistematicamente voti gravemente insufficienti e non mostravano alcun segno di voler provare a migliorare.
BOX – Perché la scienza non fa notizia
(se non in modo distorto)Per conoscere l’opinione di chi lavora nei media, e con l’intento dichiarato di aumentare la copertura mediatica della ricerca prodotta nell’Unione europea, la Commissione di Bruxelles ha realizzato qualche anno fa un’indagine tra i giornalisti, cui hanno risposto professionisti di 28 paesi.
Il questionario chiedeva di identificare i criteri adottati dai media per scegliere le notizie di cui occuparsi. Le risposte sono state abbastanza concordi nell’indicare, in ordine di importanza:
1. Rilevanza per la vita quotidiana
2. Novità
3. Comprensibilità
4. Prossimità geografica
5. Nesso con la politica
6. Aspetti controversi
7. Originalità
Secondo l’ultima indagine del centro Observa – Science in Society, che da oltre un decennio pubblica un rapporto annuale su Scienza Tecnologia e Società, le notizie di scienza arrivano agli italiani in primo luogo attraverso la televisione (che è il mezzo intrinsecamente più portato alla distorsione dei contenuti scientifici, secondo l’esperienza di Health News Review descritta più in alto), seguita nell’ordine da quotidiani, riviste, siti internet e blog, con fanalino di coda la radio.
«I dati del 2013 sembrano evidenziare nel complesso un aumento dell’interesse per i contenuti scientifico-tecnologici presentati dai diversi mezzi di informazione» scrivono i ricercatori. «Come nel 2012, diminuisce la quota di chi non accede mai a notizie riguardanti scienza e tecnologia. Per alcuni mezzi come i quotidiani, la televisione, le riviste di divulgazione e la radio, si inverte la tendenza di lungo periodo alla riduzione dell’esposizione da parte del pubblico. Rispetto al 2011, l’anno in cui si era rilevato il più forte calo di interesse dei cittadini, crescono del 10% i lettori più assidui di stampa quotidiana e i telespettatori abituali di programmi su scienza e tecnologia, aumenta del 5% la percentuale di italiani che legge riviste di divulgazione scientifica almeno una volta alla settimana. Per i siti web dedicati alla scienza e alla tecnologia, l’incremento dei fruitori è costante negli anni: una quota sempre crescente di cittadini attenti all’informazione scientifica non si accontenta di ciò che gli viene proposto ma cerca quello che gli interessa sul web».
Appendice: Risorse in rete
Ecco le sigle e i siti di riferimento principali per i giornalisti scientifici.
L’associazione Science Writers in Italy (SWIM) www.sciencewriters.it
La Federazione Europea per il giornalismo scientifico (EFSJ) www.efsj.eu
La Federazione Mondiale del Giornalisti Scientifici (WFSJ), che ogni due anni promuove il congresso mondiale cui partecipano oltre mille professionisti da tutto il mondo www.wfsj.org.
Eurekalert, il sito promosso dall’American Association for the Advancement of Science per diffondere i comunicati-stampa di riviste e istituzioni scientifiche (i giornalisti accreditati possono in casi particolari ricevere materiali in anticipo sulla pubblicazione, sotto embargo) www.eurekalert.org.
AlphaGalileo, l’analogo sito per far conoscere la ricerca europea, promosso da numerose istituzioni del Vecchio Continente www.alphagalileo.org.
La International School of Science Journalism attiva dal 2009 presso il Centro di cultura scientifica “Ettore Majorana” di Erice ericescijc.wordpress.com.
Il neonato centro per il giornalismo scientifico etico www.sciencejournalismeurope.eu.
Fabio Turone
Giornalista professionista dal 1994, si è sempre occupato di scienza e medicina. Oggi dirige l’Agenzia Zoe di giornalismo medico e scientifico di Milano, che ha contribuito a fondare nel 2001. Dal 2010 è presidente dell’associazione professionale Science Writers in Italy, ed è tra i promotori della Federazione europea per il giornalismo scientifico. Dal 2012 è direttore del corso internazionale di giornalismo scientifico di Erice, e nel 2013 e 2014 ha coordinato per conto dell’UNESCO due corsi per i giornalisti e comunicatori scientifici dei Balcani, a Belgrado e Podgorica.
Articolo pubblicato sulla rivista DESK n°4/2014